In teoria dovrei proseguire il discorso sulla storia della genetica passando alla scoperta del DNA, ma dato che il 5 dicembre è morto Nelson Mandela, uno dei paladini nella lotta contro il razzismo, mi è sembrato doveroso aprire una parentesi su di un capitolo un po’ buio, quello delle derive pseudoscientifiche in seno alla genetica, a cominciare dal razzismo.
Cronologicamente, inoltre, siamo bene o male nello stesso periodo, quindi non vi sono sbalzi.

Il nostro discorso nasce da una costola della cosiddetta antropologia razziale, inizialmente nata come semplice strumento descrittivo, ma poi assunta a giustificazione scientifica delle disuguaglianze sociali e delle segregazioni, pretendendo di dare basi biologiche alle differenze socioeconomiche.
Fra il XVIII e il XIX secolo molti pensatori (fra i quali anche eminenti scienziati ed illuministi, come Linneo o Voltaire) si sbizzarrirono nelle loro ipotesi.
Inoltre è in questo periodo che nascono le teorie sull’origine dell’uomo monogenica, cioè dove tutti discendono da una stessa popolazione (per alcuni da Adamo ed Eva), o poligenica, cioè dove le diverse popolazioni si sono evolute parallelamente ed in contemporanea. Nulla da dire su queste speculazioni se non che in seguito alcuni sfruttarono la prima per avanzare l’idea che alcune razze si fossero “degenerate” da una originale e “pura”, mentre altri sfruttarono la seconda per sostenere che alcune razze si fossero quindi maggiormente sviluppate mentre altre fossero “inferiori”. I poveri africani venivano accostati alle scimmie, nel primo caso perché “Dio creò l’uomo a propria immagine e somiglianza” e quindi non potevano essere neanche umani ma bestie (in epoca di colonialismo americano alcuni missionari la usarono come giustificazione per lo schiavismo, di fronte alle proteste di chi lo riteneva un comportamento contrario all’etica cristiana), nel secondo caso per gli stessi motivi ma considerandoli esseri intermedi più sviluppati delle scimmie ma non ancora umani.
Un Comma 22 impeccabile, non c’è che dire.

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Molti autori provarono a stabilire dei criteri misurabili per giustificare questa disparità di livello, fra cui le differenze nell’alimentazione e la forma o la “bellezza” del cranio.
Fu la nascita di numerose pseudoscienze come la craniologia razziale o la fisiognomica, che non seguivano affatto la scientificità e si rivelarono in seguito totalmente campate per aria.
A far discutere tutti fu invece la teoria dell’Origine della specie di Charles Darwin, che nella successiva Origine dell’uomo faceva storcere un po’ qualche naso perché proclamava che l’umanità tutta discendeva dalla scimmia. Darwin riconobbe differenze sociali e culturali fra le popolazioni, ma non riconosceva le differenze biologiche, ritenendo vi fosse un’unica specie umana.
Tuttavia il clima di questo periodo alimentò l’opinione che si potesse non solo giustificare, ma legittimare la schiavitù, il colonialismo, la segregazione razziale e la discriminazione.

Con la nascita della genetica, infatti, qualcuno si chiese se si potesse legittimare su basi genetiche la discriminazione per le caratterstiche umane, ma non solo: qualcuno si chiese se si potesse operare per controllarle.

L’eugenetica era una sorta di filosofia che auspicava nella procreazione di incoraggiare la diffusione di tratti positivi, al contempo evitando la trasmissione di quelli negativi (come una malattia). Fin qui non c’è ancora nulla di patologico e ancora adesso si prendono in considerazione pensieri simili come nella discussa controversia della diagnosi pre-natali, che per esempio nel campo della fecondazione assistita secondo i sostenitori permetterebbe a molte coppie portatrici di malattie trasmesse geneticamente di determinare se queste sono presenti anche nella progenie e scegliere se evitare di condurre la gravidanza di un embrione portatore del terribile male – gli anti abortisti ovviamente sono contrari.
Non di meno ogni volta che scegliamo un partner cerchiamo sempre quello che giudichiamo “migliore”, di cui speriamo di rivedere le caratteristiche nei figli, per cui è anche un comportamento tutto sommato banale e comune, piuttosto che un costrutto intellettuale.

Il problema vero eproprio c’è quando si iniziano ad attuare politiche sociali basate su questi principi, con risvolti spesso tragici e che hanno fatto sì che il termine “eugenetica” assumesse una connotazione negativa – motivo fra l’altro per cui c’è tanta disputa attorno alle fecondazioni in vitro e nelle diagnosi.
Il nazional socialismo, per esempio, propagandò una forma di eutanasia che vedeva nei disabili e nei malati dei pesi sociali da eliminare, invece di farli gravare sulle tasche dei cittadini tedeschi, o al limite da sterilizzare forzatamente. Oggi consideriamo a ragione tutto ciò un’atrocità.

Nel 1916 Castle sostenne che “incroci razziali nell’uomo sono indesiderabili perché portano a ibridi disarmonici”. Morgan, lo stesso della TCE, nella rivista dell’American Breeders’ Association propagandava molte teorie eugenetiche che lo forzarono a dimettersi.
E diversi paesi approvarono leggi che sancivano la sterilizzazione forzata, il divieto di contrarre matrimonio, gravidanze e aborti forzati, segregazione e controllo delle nascite per gli individui “socialmente indesiderabili”, compresi diversi stati americani nei quali divampò una polemica feroce che si assopì solo dopo la guerra quando venne messo tutto al bando.

Uno dei simboli del razzismo scientifico è Alfred Ploetz: fu un antropologo tedesco. Coniò il termine di “igiene razziale” (Rassenhygiene) e le sue opere furono di notevole ispirazione per il nazionalsocialismo.
Le sue teorie riassumevano decenni di deriva pseudoscientifica in cui si pretendeva di dimostrare l’esistenza di razze umane e di una gerarchia fra di esse. Le differenze culturali venivano attribuite a basi genetiche, mentre le caratteristiche dovute alle condizioni ambientali venivano fuse assieme a intelligenza o “purezza”.

La risposta definitiva a queste teorie ci venne dalle cosiddette “analisi del DNA mitocondriale”. Che cosa vuol dire?
Non lo abbiamo ancora spiegato, ma i geni sono contenuti nel DNA, concetto che comunque dovrebbe essere di dominio pubblico se non dagli studi scolastici per lo meno dal dibattito pubblico, quando si parla di OGM, sperimentazione animale o malattie rare.
Il DNA è contenuto nel nucleo delle cellule, ma esiste in realtà anche un altro tipo di DNA, più piccolo, contenuto in piccoli organelli posseduti da tutte le cellule: i mitocondri. Essi adempiono a importanti funzioni biochimiche nella cellula, implicati nei meccanismi di produzione dell’energia, e secondo alcuni scienziati si trattò in origine di piccoli batteri che vennero “inglobati” da cellule più grandi miliardi di anni fa. Non vennero “digeriti”, ma si integrarono nella struttura della cellula, entrando in simbiosi. Essi sopravvissero e si trasmisero di generazione in generazione, dividendosi assieme alla cellula maggiore, anche quando gli organismi diventarono pluricellulari, e poi vertebrati, e poi animali terrestri. Il fatto che essi possiedano una piccola quantità autonoma di DNA, slegata da quello nucleare, sarebbe la prova di questo passaggio.

Quando nella riproduzione si formano i gameti nei nostri organi sessuali, i mitocondri sono presenti all’interno dell’ovulo, ma non nella testa dello spermatozoo (quella che contiene il DNA del padre e che penetrerà nell’ovulo fecondandolo). Perciò noi ereditiamo i mitocondri solamente dalle nostre madri. Ciò ci è di aiuto perché ci permette di analizzare i DNA mitocondriali e risalire in linea genealogica in maniera molto diretta e precisa, stabilendo un “percorso di madri” fra i nostri antenati. Ed è quello che la genetica molecolare e delle popolazioni hanno fatto, analizzando il DNA mitocondriale di individui provenienti da numerose etnie e confrontandoli per paragonarne le differenze. La scoperta fu sensazionale: i geni, raggruppati in particolari famiglie dette “aplogruppi”, variavano di pochissimo e con delle gradazioni che indicavano che tutte le popolazioni umane discendono da delle uniche femmine africane, con con i vari gruppi separatesi non più di poche migliaia di anni fa.

Questa fu la conferma alla teoria monogenica che vedeva tutte le popolazioni umane derivare da un unico ceppo, ma anche la prova che non esistono “condizioni intermedie fra l’uomo e la scimmia” o che vi siano degenerazioni.

Le analisi genetiche permettono inolte di stabilire che abbiamo così tante caratteristiche in comune che è assurdo pensare di differenziarci solo per il colore della pelle. Noi europei siamo paradossalmente più simili a certe popolazioni africane di quanto queste siano simili ad altre.
E soprattutto, il concetto di razza ha senso solo quando si ha una separazione di popolazioni che permetta una differenziazione di caratteristiche, ma nella realtà i nostri patrimoni genetici sfumano gradualmente e si rimescolano in continuazione, negando assolutamente che esistano popolazioni dalle caratteristiche “superiori” e altri “inferiori”, perché fra popolazioni diverse le differenze complessive sono talmente minime da essere poco significative rispetto a quelle che può avere un individuo rispetto ad un altro della stessa etnia.

Tutto ciò si conclude con una sola cosa: che le razze umane non esistono e che in biologia, in scienza, il razzismo non ha significato alcuno. L’antropologia razziale fu a tutti gli effetti una pseudoscienza, la più vasta ed efferata di tutte, molto più delle teorie new age che oggi ci imbarazzano tanto con le loro assunzioni su piani vibrazionali, piani energetici o memorie dell’acqua.

E’ rilevante notare anche come, contrapposta alla società dell’eugentica, vi fosse anche una mentalità “anti-genetica” sorta invece nell’Unione Sovietica. Come il razzismo scientifico voleva utilizzare la scienza per legittimare le proprie pretese politiche e sociali, inventandosi anche ad hoc delle “dimostrazioni scientifiche”, il comunismo adattò la scienza all’ideologia, facendo in modo che la prima dovesse per forza di cose adottare solo ciò che fosse in accordo con la seconda.
Un ritorno ai tempi bui dell’Inquisizione e del periodo della contro-riforma, in cui le arti e le scienze dovevano ribadire ciò che le Sacre Scritture avevano già stabilito a priori.

Trofim Denisovič Lysenko fu un agronomo sovietico, principale simbolo di una visione politicizzata della biologia durata fino agli anni ’60 e che ebbe l’appoggio di Stalin. Egli si scagliò accanitamente contro la scienza accademica, e utilizzò l’ideologia politica per screditare i principi classici della genetica e le leggi di Mendel. Sosteneva una teoria neolamarckiana derivata da Mičurin, secondo la quale l’eredità dei caratteri sarebbe influenzata da fattori ambientali acquisiti ed esistesse un’evoluzione non genetica. Per motivi propagandistici venne esaltato dal regime e molti suoi dati si rivelarono in seguito falsificati; il regime stesso sfruttò i suoi lavori per dedurre invece dei principi biologici che rimanessero d’accordo con l’ideologia politica e, contrariamente al suo parere, ostracizzò per poi incriminare e arrestare i genetisti visti come “pseudoscienziati borghesi”. La genetica classica e l’opposizione al lysenkoismo vennero messi fuori legge. Sempre contrariamente al suo parere, le sue teorie genetiche vennero applicate alla sociologia. Il progresso scientifico sovietico, soprattutto in ambiti zootecnici e agricoli, subì una battuta d’arresto, denunciata pubblicamente dallo scienziato Sakharov negli anni ’60.

Le sue teorie che contestavano la genetica mendeliana non erano vere: importanti genetisti come Correns, Boveri, Sutton, Morgan, Sturtevant, Muller, Avery, Meselson o Stahl, dimostrarono le reali basi dell’ereditarietà dei caratteri, nonché come essi fossero presenti sottoforma di “geni” sui cromosomi e che il DNA è il materiale di cui sono composti.

Al giorno d’oggi “lysenkoismo” è diventato sinonimo di una condizione in cui il rigore della ricerca scientifica è stato subordinato all’ideologia politica.

[AM]