L’influenza aviaria (H5N1), come il nome suggerisce, trova negli uccelli il suo principale serbatoio naturale, in particolare uccelli costieri ed acquatici. Questa distanza da noi la rendeva un pericolo raro per gli esseri umani, dal 2003 al 1 aprile 2024 infatti vi sono stati 889 casi nel mondo e 463 morti (letalità del 52% quindi!) [1].
Negli ultimi tempi però una sua diffusione tra i mammiferi ha innalzato il livello di allarme e sono cresciute le preoccupazioni per quanto concerne la salute umana e persino per il rischio pandemico. Nel 2022 il virus è arrivato in Sud America e ha provocato una strage tra i mammiferi marini come foche e leoni marini, uccidendone almeno 50.000 [2]. Il virus è stato individuato poi nei gatti, in un procione, persino in un delfino [3], in una fattoria di visoni in Spagna [4] e, ciò che è peggio, nelle mucche (ha infettato finora 35 specie di mammiferi). A marzo 2024 infatti negli USA furono individuati diversi capi con la mastite, un’infezione della mammella e venne riscontrato un calo di produzione nel latte, il quale appariva addensato e scolorito. Dopo aver condotto le indagini del caso ed escluso tutte le possibili cause, l’analisi dei tamponi ha svelato l’arcano: si trattava di H5N1 [5]. Questa fu una sorpresa in quanto non si riteneva che le mucche fossero suscettibili a questo virus. Invece si è scoperto che il virus si era già diffuso in almeno 42 mandrie in nove stati. Ciò che ha destato preoccupazione poi è stata la scoperta che il virus si è diffuso indisturbato nelle mucche per mesi, senza che venisse individuato [6].
Si potrebbe pensare che fino a che la diffusione del virus si limita agli animali la cosa non dovrebbe preoccuparci più di tanto, in fondo per quanto si sa l’epidemia tra le mucche negli USA ha infettato una sola persona. Attualmente infatti il CDC [7] e l’OMS [8] indicano che il rischio per gli esseri umani rimane basso. Ma consentire al virus di diffondersi indisturbato tra uccelli, mammiferi di vario genere e soprattutto allevamenti, aumenta di giorno in giorno le sue chance di acquisire mutazioni che lo possono rendere più efficiente nel diffondersi tra i mammiferi e soprattutto negli esseri umani. Questo è già successo almeno in parte. Nell’uomo infetto negli USA è stata trovata la mutazione E627K [9], nota per essere un adattamento del virus ai mammiferi. Come uno squalo che ad ogni circonvoluzione si avvicina progressivamente alla preda, il virus ad ogni infezione si avvicina a noi, rendendolo, al momento, il principale candidato per provocare la prossima pandemia.
Osservati speciali in questo senso sono i maiali. Essi sono particolarmente suscettibili ai virus influenzali di tipo A, se venissero infettati quindi con due differenti ceppi influenzali contemporaneamente essi potrebbero scambiarsi materiale genetico e ricombinarsi tra loro (i virus influenzali lo fanno spesso e volentieri) dando origine a un nuovo virus, potenzialmente pericoloso. Questo è esattamente ciò che si ritiene sia successo nel 2009 con la cosiddetta influenza suina, partita proprio da un allevamento in Messico [10].
Per poter entrare nella cellula il virus ha bisogno di qualcosa da sfruttare, vale a dire un recettore, una serratura cellulare cui potersi agganciare per entrare nella cellula e dare così il via alla sua replicazione. Nel caso del SARS-CoV-2 la serratura è rappresentata dai recettori ACE 2, nel caso dell’influenza aviaria invece è rappresentata dall’acido sialico, una molecola di zucchero (precisamente un monosaccaride con una catena di 9 atomi di carbonio) che si trova sulla superficie cellulare e che svolge varie funzioni volte a mantenere l’integrità della membrana cellulare. La chiave utilizzata dai virus influenzali per forzare la serratura è una proteina chiamata emoagglutinina. Essa permette al virus di entrare nella cellula inducendo la fusione tra la membrana virale e quella della cellula. Per uscire dalla cellula invece il virus utilizza la neuraminidasi. La sua funzione principale è quella di facilitare l’uscita dalla cellula delle particelle virali mature (virioni) impedendo la loro agglomerazione[11]. Una piccola digressione: vi sono diversi tipi di emoagglutinina e neuraminidasi. Esse vengono utilizzate per classificare i virus influenzali in base alla loro forma. H5N1 significa che il virus possiede emoagglutinina di tipo 5 e neuraminidasi di tipo 1 [12].
I maiali dispongono sulle loro cellule di recettori sia del tipo umano (che somigliano a una sorta di L rovesciata), sia del tipo presente sugli uccelli (che hanno la forma di una I) [13]. Questo li rende particolarmente sensibili a doppie infezioni da parte di virus umani e aviari, con conseguente maggior rischio di ricombinazione. Per questo motivo l’epidemia tra le mucche preoccupa gli scienziati, ma non quanto preoccuperebbe un’epidemia tra i maiali. Questo fino ad oggi. A quanto pare secondo uno studio in pre-print, vale a dire non ancora sottoposto a peer review, anche le mucche possiedono entrambe le forme di acido sialico sulle loro cellule, in particolare nelle mammelle (meno nelle alte vie respiratorie). Questo è preoccupante in quanto significherebbe che anche le mucche potrebbero rappresentare un veicolo di ricombinazione dei virus [14].
Attualmente come dicevamo solo una persona è stata infettata nella recente epidemia e non vi sono prove che il contagio si sia diffuso ad altre persone. Non vi sono prove di trasmissione da uomo a uomo (se non in casi molto remoti. Tuttavia per esserne certi occorreranno più studi, in particolare studi sierologici sulle persone a contatto con il bestiame, gli agricoltori quindi, nonché alle altre persone entrate a contatto con questi ultimi. Affinché ciò avvenga però sarà necessaria la loro collaborazione ed il loro consenso. Disponiamo quindi di informazioni non complete al momento [15].
Come ormai dovremmo aver imparato, le zoonosi, i salti di specie da animale a uomo, sono frequenti e hanno sempre caratterizzato la storia umana. Non c’è niente di nuovo sotto questo punto di vista. Tuttavia ciò che è cambiato è il nostro impatto sul pianeta, che si sostanzia attraverso lo sfruttamento intensivo delle risorse al fine di poter sostenere una popolazione che cresce, cosa che crea nuove opportunità di salti di specie (spillover). Abbattendo una foresta per far spazio a campi coltivati, ad esempio, potremmo imbatterci in specie animali con cui un tempo i contatti erano rari e questo aumenta le possibilità di conseguenze non gradite. Parimenti la distruzione del loro habitat può spingere le specie a migrare e incontrare nuovi gruppi di esseri umani. Anche il cambiamento climatico di origine antropica può spingere le specie a migrare in cerca di habitat più ospitali, aumentando così i rischi di spillover[16].Il riscaldamento del pianeta può indurre inoltre stress termico negli uccelli, il quale può influire negativamente sulla loro risposta immunitaria [17]. Una risposta immunitaria più debole da parte degli uccelli potrebbe aver facilitato la diffusione dell’influenza aviaria tra di essi e di conseguenza potrebbe avergli dato maggiori opportunità di mutare. Forse non è un caso che gli anni più caldi mai registrati siano stati gli ultimi dieci! [18]. Così come potrebbe non essere un caso il fatto che negli ultimi anni siano morti milioni di uccelli nel mondo.
A completare il quadro c’è la globalizzazione. Qualunque ne sia la causa un patogeno, dopo aver fatto il salto di specie, può fare il giro del mondo in pochi giorni. In buona sostanza il rischio pandemie è in aumento e la prossima è solo questione di tempo.
Tutto questo dovrebbe farci riflettere su quello che il nostro impatto sul pianeta comporta e su quanto è importante lavorare per ridurlo. Sorvegliare i virus fin dal loro impatto sulla fauna e porre in essere misure per ridurre i rischi per il bestiame permette di stanare le possibili minacce fin dalla fonte e di evitare così dei potenziali disastri. In pratica pensare al nostro impatto sul pianeta, all’ambiente e al benessere animale può avere riscontri enormemente positivi sulla salute pubblica. È quello che si chiama approccio OneHealth. Preoccuparsi dei patogeni solo quando essi iniziano a diffondersi tra la popolazione umana è come cercare di prevenire il collasso di una diga mettendo un tappo ad una falla. È quindi particolarmente preoccupante che l’epidemia nelle mucche non sia stata individuata subito. Come ha detto Jesse Bloom, biologo evoluzionista al Fred Hutchinson Cancer Center di Seattle, “una pandemia di H5N1 è una di quelle situazioni che potrebbe accadere settimana prossima o non accadere mai” [19]. Indipendentemente da ciò quello che è certo è che dobbiamo fare tutto il possibile per evitarlo!
Il virus intanto continua a infettare mammiferi come lo squalo che gira attorno alla sua preda… Attaccherà?
Alberto Forni, Civiltà Planetaria
Crediti immagine: Mike’s Birds, CC BY-SA 2.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/2.0>, via Wikimedia Commons
NOTE E FONTI
[1] https://www.who.int/emergencies/disease-outbreak-news/item/2024-DON512
[3] https://www.nature.com/articles/s42003-024-06173-x
[4] https://www.eurosurveillance.org/content/10.2807/1560-7917.ES.2023.28.3.2300001
[5] https://www.nytimes.com/article/bird-flu-cattle-human.html
[6] https://www.nature.com/articles/d41586-024-01256-5
[7] https://www.cdc.gov/media/releases/2024/p0401-avian-flu.html
[8] Vedi nota 1
[9] https://www.nejm.org/doi/full/10.1056/NEJMc2405371
[10] https://www.who.int/emergencies/situations/influenza-a-(h1n1)-outbreak
[11] https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC7120183/
[12] Per approfondire l’argomento vedi Spillover di David Quammen
[13] https://edition.cnn.com/2024/05/09/health/bird-flu-cows-human-receptors/index.html
[14] The avian and human influenza A virus receptors sialic acid (SA)-α2,3 and SA-α2,6 are
widely expressed in the bovine mammary gland
[15] https://www.statnews.com/2024/05/03/bird-flu-why-h5n1-keeping-awake-cdc-top-flu-scientist
[16] https://www.nature.com/articles/d41586-022-01198-w
[17] https://www.nytimes.com/2024/05/10/opinion/bird-flu-animal-deaths-h5n1.html
[19] https://www.nytimes.com/2024/05/03/health/bird-flu-cows-mutations.html
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