Era il 2013 quando un’équipe internazionale di scienziati fece una scoperta incredibile in Sud Africa: nella grotta Dinaledi Chamber, facente parte del complesso delle Rising Star Cave, in quella che viene definita Culla dell’Umanità, appena fuori Johannesburg. È una vasta area famosa per importanti ritrovamenti fossili fin dagli anni ’20 del 1900.

Furono rinvenute, in uno dei tanti inghiottitoi[1], circa 1500 ossa di quella che sembrava una nuova specie di ominino[2].

Nel 2015, dopo i relativi accertamenti, la specie venne chiamata Homo naledi.

Lo scavo fu tutt’altro che facile: i resti si trovavano in una zona caratterizzata da enorme profondità e spazi più che angusti, quindi non era banale recuperarli, nonché elaborare una stratigrafia per poterli datare (alcuni parlano di 2 milioni di anni, altri di un intervallo tra 335 e 236 mila anni fa).

Infatti, ogni singolo osso è stato recuperato da donne, particolarmente minute, le uniche nel team, capaci di infilarsi nelle grotte e poterne anche poi uscire senza troppi impedimenti, tramite un sistema di secchielli e carrucole molto piccoli.

Ma com’era fatto Homo naledi?

Era un primate di bassa statura, non superava il 1,50 m, con caratteristiche fisiche che possiamo definire intermedie tra la nostra specie e le varie australopitecine rinvenute in Africa.

Il cranio, soprattutto nella mandibola, non è dissimile nella struttura da quello di altre specie del nostro genere, Mani e piedi, invece, presentano falangi ricurve, tipiche di un animale capace di arrampicarsi.

E il DNA, cioè lo strumento che negli ultimi 35 anni ha rivoluzionato il mondo della paleoantropologia?

“Qui cascò il ciuco” (o la scimmia nuda), direbbe mio nonno. In naledi, probabilmente per una combinazione tra antichità dei resti e caratteristiche del sito di ritrovamento, non è stato possibile rintracciare nemmeno una molecola di materiale genetico.

Questo rende, quindi, difficile individuare il ramo in cui collocare (o su cui far arrampicare) questa specie all’interno del cespuglio evolutivo del genere Homo.

Ma proprio di recente (novembre scorso) sono state pubblicate delle novità per quanto riguarda gli aspetti culturali di questa specie: il cranio di un subadulto darebbe indicazione su un probabile culto dei morti, indicando un livello di complessità sociale molto elevato, paragonabile a quello di sapiens e neanderthalensis.

Sicuramente, questo sito ha ancora da rivelarci molto sul complicato intrico che riguarda l’evoluzione del genere Homo, sperando a breve di avere anche delle informazioni dal punto di vista genetico, che andrebbero a fare un po’ di chiarezza (o a confondere di più, chissà?) un quadro che di giorno in giorno diventa più ingarbugliato e interessante allo stesso tempo.

FONTI:

[1] inghiottitoio: “Voragine in cui si smaltiscono le acque di superficie, tipica dei terreni carsici.”

[2] Hominini: “tribù di ominidi a cui appartengono l’uomo, lo scimpanzé, il bonobo e altri generi estinti. Fa parte della sottofamiglia degli Homininae, comprendente anche i gorilla.”